mercoledì 7 maggio 2008
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Viaggio nel Madre de Dios
da www.yurileveratto.com
Il mio viaggio nel fiume Madre de Dios ha avuto inizio dal Cuzco, l?antica capitale degli Incas.
La conca del fiume Madre de Dios, denominato anticamente Amarumayo o Rio de las Serpientes, era chiamata dagli Incas Antisuyo. Dalla selva dell?Antisuyo gli Incas ricavavano coca, oro, piante medicinali, miele e piume di uccelli.
Su un veicolo fuoristrada abbiamo percorso una tortuosa strada sterrata risalendo le montagne che separano la vallata del Cuzco da Paucartambo, villaggio di origine incaica situato sulle sponde del fiume omonimo. Durante il percorso abbiamo visitato le Chullpas de Ninamarca, urne funerarie in pietra situate a circa 4000 metri sul livello del mare.
Probabilmente furono costruite, intorno al XII secolo dopo Cristo, da indigeni di lingua aymara appartenenti alla cultura Lupaca.
Quindi abbiamo proceduto per Paucartambo, per poi risalire il costone della montagna fino a 3600 metri d?altitudine sul livello del mare, da dove inizia il bacino del Madre de Dios.
Dopo altre sei ore di pista sterrata e a volte inondata, sismo giunti a Pilcopata, villaggio situato a circa 500 metri sul livello del mare. A Pilcopata l?ambiente ? gi? amazzonico: temperatura elevata durante il giorno, forte umidit? e vegetazione lussureggiante. L?unica differenza con la selva bassa amazzonica ? la temperatura notturna, che pu? scendere a 16-18 gradi celsius.
Il giorno sucessivo, dopo una camminata di circa tre ore abbiamo visitato la comunit? indigena di Queros. I nativi, di etnia Wachipaeris, parlano una lingua del ceppo Harakmbut. Sono molto timidi e riservati. Ritornando a Pilcopata abbiamo visto il petroglifo di Queros, sull?altra sponda dell?omonimo fiume. I segni incisi su un?enorme roccia vulcanica ricordano i quipus utilizzati dagli Incas (corde annodate che servivano per contare e calcolare).
A mio parere queste incisioni sono state fatte da popoli amazzonici, forse antenati dei Wachipaeris, che furono influenzati dagli Incas.
Proseguendo il viaggio si avanza in furgoneta lungo una pista sterrata per circa un?ora, fino a giungere ad Atalaya, poco dopo l?unione del Rio Pilcopata con il Pi?i Pi?i. Proprio da Atalaya il fiume, gi? largo circa 200 metri, inizia a essere chiamato ?Alto Madre de Dios?.
Quindi ci sismo imbarcati su una piroga a motore e in circa un?ora abbiamo navigato fino al villaggio di Santa Cruz (chiamato anche ?250? perch? a circa 250 chilometri dal Cuzco), da dove ci sismo imbarcati su un peque peque (piroga molto maneggevole con motore da 16 cavalli e pescaggio limitato). Per risalire il Palotoa, afluente del Madre de Dios, ? necesario infatti un peque peque, in quanto in alcuni tratti le sue acque sono molto basse.
Poco dopo ? iniziata la vera aventura: abbiamo lasciato il Madre de Dios per risalire il Palotoa, le cui sorgenti si trovano nella cordillera di Pantiacolla a circa 1500 metri d?altezza sul livello del mare. Dopo circa due ore siamo giunti al villaggio di Palotoa-Teparo, dove vive una comunit? di indigeni Matsiguenkas, etnia di lengua Arawak. Sono una ventina di famiglie sparse su un ampio territorio dove si coltivano banane, yuca (manioca), patate, riso e coca (l?utilizzo della foglia di coca ? legale in Per?).
Dopo aver conosciuto il capo della comunit?, Guillermo, e aver ottenuto il suo permesso, ci siamo accampati nelle vicinanze del Palotoa. L?indomani, poco dopo l?alba, insieme a Guillermo siamo partiti per raggiungere i petroglifi di Pusharo.
Abbiamo risalito il Palotoa in peque peque per circa due ore. In alcune tratte la corrente ? cos? forte che abbiamo dovuto scendere e, con l?acqua alla vita, trainare l?imbarcazione a monte.
Ad un certo punto abbiamo deciso di proseguire a piedi lungo il fiume. Durante il cammino abbiamo attreversato vari torrenti impetuosi, il cui livello a volte raggiungeva le ginocchia altre volte il petto.
Dopo circa tre ore di cammino, abbiamo raggiunto il petroglifo di Pusharo.
Secondo alcuni questo petroglifo ? il pi? grande del mondo: sicuramente ? imponente e le incisioni sono meravigliose, ? un?autentica opera d?arte.
Da alcuni resti ossei riscontrati nella zona si evince che il petroglifo fu scolpito con asce di pietra intorno al primo millennio dopo Cristo. A mio parere gli autori di quest?opera d?arte furono gli antenati dei Matsiguenkas o un altro popolo amazzonico. Vi sono rappresentate figure antropomorfe, zoomorfe e fitomorfe.
Le figure piu interessanti sono alcune incisioni cefaliformi, che forse descrivono delle maschere utilizzate da antichi abitatori della selva.
E? probabile comunque che i misteriosi autori del magistrale intaglio siano stati influenzati dagli Incas e abbiano ritoccato il petroglifo nei secoli successivi come dimostrano alcuni segni di origine incaica.
Dopo aver mangiato, abbiamo ripreso la strada del ritorno e sismo giunti al villaggio di Palotoa Teparo in serata.
L?indomani abbiamo deciso di proseguire il viaggio lungo il Madre de Dios, e dopo aver ridisceso il Palotoa fino a Santa Cruz, abbiamo optato per continuare sulla strada sterrata fino al villaggio di Itahuania, ultimo avamposto raggiunto dalla carrozzabile.
Alcuni enormi camion Volvo viaggiano sporadicamente a Itahuania dove acquistano legna che poi venderanno al Cuzco o ad Arequipa.
Noi ci siamo sistemati nel cassone di un Volvo e in circa due ore di viaggio abbiamo raggiunto Itahuania, villaggio sperduto da dove si pu? apprezzare una splendida vista della cordillera di Pantiacolla.
L?indomani, di buon ora, ci siamo imbarcati su una lancia a motore carica all?inverosimile di merci e in circa quattro ore di navigazione abbiamo raggiunto il villaggio di Boca Manu, poco lontano dalla confluenza del Manu con il Madre de Dios.
A Boca Manu siamo rimasti due giorni.
In questo villaggio, quasi completamente isolato, la dieta ? a base di riso, uova, galline, carne di scimmia e huangana, una specie di maiale della foresta. Purtroppo non abbiamo trovato una barca per scendere a valle e cos? si stava profilando l?ipotesi di rientrare a Itahuania.
Nella serata del secondo giorno per?, ecco l?occasione: abbiamo conosciuto un maderero
(commerciante di legname), che il giorno successivo sarebbe sceso in zattera lungo il Madre de Dios fino al villaggio di Colorado. La zattera, di circa 20 metri di lunghezza, era costituita dal suo legname, gi? tagliato in assi, che avrebbe venduto a Colorado. Lui si offr? di trasportarci gratuitamente, l?unico inconveniente sarebbe stato il sole, in quanto nella zattera non vi sono ripari.
L?indomani abbiamo iniziato il viaggio. La zattera era connessa con delle corde a un peque peque, che avrebbe aiutato in caso di emergenza.
Il sole, cocente sin dalle 7.30 del mattino, ci ha letteralmente cotto, ma anche le zanzare, potentissime, hanno contribuito a rendere il viaggio non proprio una passeggiata.
Abbiamo dormito su una riva del Madre de Dios e l?indomani, verso le tre del pomeriggio abbiamo raggiunto Colorado, villaggio famoso per i lavaderos de oro.
Nelle rive dei fiumi di questa zona del Madre de Dios, infatti, si pu? trovare oro in buona quantit?. In totale se ne ricavano circa 8 tonnellate l?anno, ma di questa ricchezza non c?? traccia a Colorado.
In realt? in questa zona arrivano ogni mese centinaia di disperati da tutto il Per?. Scelgono di lavorare come lavaderos de oro inseguendo il sogno della ricchezza ma in realt? devono lavorare 12-14 ore al giorno per un salario da fame.
Quella notte abbiamo dormito in un hospedaje del villaggio. L?indomani ci siamo svegliati sotto un fortissimo diluvio. La strada per Puerto Carlos era interrotta e cos?, dopo aver comprato un poncho, abbiamo proseguito in moto fino alla confluenza del fiume I?abari con il Madre de Dios.
Una volta attraversato l?I?abari in peque peque, era quasi fatta: abbiamo camminato un?oretta e siamo giunti sulla strada sterrata che connette il Cuzco a Puerto Maldonado.
In circa tre ore di buseta sismo giunti a Puerto Maldonado, citt? di circa 40.000 abitanti, sulle rive del Madre de Dios.
YURI LEVERATTO
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by Yuri Leveratto il mercoledì 7 maggio 2008
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mercoledì 7 maggio 2008
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Il Cerro Rico di Potos
da www.yurileveratto.com
La zona dove oggi sorge la citt? di Potos? fu occupata in epoche remote da indigeni Atacamas e Chipayas.
Nel XV secolo il territorio fu conquistato da Huayna Capac e incorporato nell?impero degli Incas. Huayna Capac dovette presto confrontarsi con gruppi tribali di Guaran?es che premevano da sud. Questi ultimi furono sconfitti e espulsi definitivamente dalla regione.
La leggenda narra che Huayna Capac si avvicin? alla montagna di Potos? detta Cerro Rico, chiamata in idioma aymara Sumac Orcko (montagna bella).
Huayna Capac decise di sfruttarne i minerali ma una voce poderosa scatur? dalle nuvole: Non saccheggiate l?argento di questa montagna perch? ? destinato ad altri signori.
Alcuni dicono che questa leggenda sia stata diffusa proprio dagli spagnoli per giustificare la loro propriet? del Cerro Rico (enorme cono la cui cima si trova a 5183 metri sul livello del mare).
Molti anni dopo, nel 1545, un indigeno di nome Diego Hualpa scopr? alcune vene d?argento nel Cerro Rico. Lo spagnolo Juan de Villaroel, resosi conto dell?immane quantit? di minerale contenuto nella montagna, ne prese possesso ufficialmente, il primo aprile 1545.
Il villaggio che fu costruito ai piedi della montagna fu chiamato Potos?, da un?antica parola quechua che probabilmente significava ?tuona, esplode?
Solo sedici anni pi? tardi il villaggio ottenne il titolo di citt? con il nome di Villa Imperial de Potos?.
Le miniere d?argento attirarono migliaia di persone a Potos? che in pochi anni crebbe a dismisura divenendo la pi? grande citt? d?America e la pi? popolosa dell?impero spagnolo (contava 160.000 persone nel 1625). Agli inizi del XVII secolo a Potos? erano gi? state costruite 36 chiese riccamente adornate con altari d?argento. Vi erano case da giuoco e varie sale da ballo dove gli avventori sfoggiavano superbi abiti di seta che venivano importati dall?Europa. Si aprirono varie case d?appuntamento dove i ricchi signori dell?argento si intrattenevano con celebri prostitute bevendo champagne francese e consumando caviale del Volga. Persino le staffe dei cavalli erano d?argento. Nel 1658, inoltre, per la celebrazione del Corpus Christi, alcune strade della citt? furono pavimentate con barre d?argento.
La fama di Potos? raggiunse tutto il mondo. Lo stesso Carlo V scrisse questi versi come ringraziamento al Cerro Rico:
Sono il ricco Potos?, il tesoro del mondo, il re delle montagne, e l?invidia dei re.
Il grande scrittore spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra, nella sua famosa opera El ingenioso Don Qijote de la Mancha (1605), descrisse il Cerro Rico rendendo popolare la frase vale un Potos?, come sinonimo di ricchezza, opulenza, magnificenza.
Purtroppo furono gli indigeni di etnia Incas e Colla (rispettivamente di lingua quechua e aymara) che pagarono il prezzo di questa ricchezza.
Gli spagnoli reintrodussero il sistema chiamato mita, gi? in uso presso gli Incas, secondo il quale i mitayos venivano costretti al lavoro obbligato, non retribuito. Anche se dal punto di vista legale la corona spagnola non riconosceva lo stato di schiavit? degli indigeni, ma solo dei neri di origine africana, in pratica gli indigeni venivano sottomessi e costretti a lavorare fino a venti ore al giorno in miniera, in condizioni terribili.
Nel 1572 arriv? a Potos? il vicere del Per? Francisco de Toledo. Si dedic? ad alcune opere urbanistiche, tra le quali la costruzione della prima Casa de la Moneda, dove si cominci? a coniare le monete d?argento, chiamate macuquinas o reales, che vennero presto utilizzate in tutti i territori soggetti all?autorit? della corona spagnola.
La Casa de la Moneda inizi? cos? a funzionare come banca centrale dell?impero spagnolo.
Sotto gli ordini del vicer?, 16 provincie indigene di tutto il Per? furono obbligate a inviare mano d?opera dai 16 ai 50 anni d?et?.
Ogni anno circa 15.000 indigeni erano costretti a viaggiare a Potos? per lavorare nella miniera.
Rimanevano una settimana all?interno della miniera senza uscire e poi venivano rimpiazzati da altri; dopo un periodo di riposo vi rientravano.
Il Cerro Rico era come la bocca dell?inferno. Chi vi entrava raramente riusciva a sopravvivere pi? di quattro anni.
Si stima che dal 1545 al 1820 circa quattro milioni di indigeni morirono nel Cerro Rico che fu anche denominato Cerro de sangre. Anche i neri africani furono obbligati a lavorare nella miniera d?argento, ma quando si comprov? che avevano difficolt? a respirare, e che la loro altezza non era adatta agli angusti passaggi della miniera, si prefer? impiegarli nell?agricoltura.
Nella miniera si utilizzava il mercurio che serviva come collante per il minerale da estrarre. Respirarlo causava la perdita di denti e capelli. Chi sopravviveva, chiedeva l?elemosina ai margini della citt?, per poi morire solo e abbandonato di fame, freddo e malattie.
In seguito al lavoro forzato di migliaia di indigeni, da Potos? furono ufficialmente estratte, dal 1545 al 1820, circa 31.000 tonnellate d?argento (11,5 miliardi di euro ai prezzi attuali), oltre ad altre migliaia di tonnellate di zinco, piombo, stagno e altri minerali rari. Questi dati non includono il contrabbando. Nessun?altra singola miniera al mondo ha prodotto tanto argento. La maggioranza dell?argento strappata alla montagna fu inviata, prima sul dorso di lama fino al porto di Arica (attualmente appartenente al Cile) e poi con galeoni, fino a Panama e quindi, in Spagna. Quello che rimase a Potos? serv? ai signori dell?argento per costruire grandiose chiese barocche, scuole, accademie.
Nel XVIII e XIX secolo Potos? entr? in una fase di lenta decadenza. In seguito allo sfruttamento di altre miniere la popolazione declin? e molte miniere furono abbandonate.
Proprio negli ultimi anni per? il prezzo internazionale dei metalli ? nuovamente cresciuto.
Una delle cause ? l?enorme domanda di paesi emergenti come Cina e India. Il Cerro Rico ? tornato a essere il centro minerario della Bolivia e molte miniere sono state riaperte. Attualmente lo sfruttamento della montagna ? in mano ad alcune cooperative boliviane e a varie ditte private straniere.
Negli ultimi vent?anni la popolazione della citt? ? passata da 139.000 a 200.000 abitanti e la miniera ha attratto lavoratori da Cile, Argentina, e Per?. Il numero dei minatori ? cresciuto fino a 16.000 unit? e si stanno costruendo nuove unit? abitative. Nella regione di Potos? si sono riaperte circa 50 miniere che erano state abbandonate.
Sembra per? che poco sia cambiato dal 1970, quando Eduardo Galeano scrisse Las venas abiertas de America Latina, saggio nel quale mise in luce l?incapacit? di molti paesi latino-americani di creare valore aggiunto, limitandosi a sfruttare o a dare in concessione a imprese straniere le enormi risorse naturali del continente.
Solo ultimamente qualcosa sembra cambiare: si sta cercando di creare un parco industriale e una scuola artigianale per formare esperti argentieri. Con la realizzazione di un marchio, le creazioni d?argento di Potos? potrebbero in un futuro prossimo dare respiro a una economia troppo sbilanciata verso lo sfruttamento minerario, della quale si beneficiano solo poche persone.
YURI LEVERATTO
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by Yuri Leveratto il mercoledì 7 maggio 2008
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lunedì 17 settembre 2007
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Nomadi nella steppa
da WWW.YURILEVERATTO.COM
Verso la fine di ottobre del 2002 ero a Pechino, e cercavo un modo di ottenere il famigerato visto russo, che mi avrebbe consentito di attraversare la Siberia con il famoso treno. Per? dopo aver facilmente ottenuto il visto per la Mongolia, ricevetti un secco rifiuto dall?ambasciata russa di Pechino. Motivo? Non ci furono motivi, n? spiegazioni, solo un secco no.
E allora che fare? Il sogno della transiberiana, la ferrovia pi? lunga del mondo sarebbe cos? svanito? Avrei dovuto tornare in Europa in aereo? No, dopo vari mesi di ?nomadismo? attraverso Indonesia, Indocina e Cina, il tanto sospirato ?viaggione? non poteva terminare cos?, in aereo.
E allora mi decisi, avrei continuato per la Mongolia, per la mitica Ulan Bator e da l? poi avrei cercato di ottenere il visto russo.
E cos? feci: la mattina succesiva mi presentai alla stazione di Pechino verso le 5.30 e mi ?sistemai? in uno scompartimento stracolmo di mongoli che tornavano nella loro terra.
Il viaggio dur? ventiquattr?ore, ma gi? nel pomeriggio il lungo convoglio della ?transmongolica? lasci? il territorio cinese per entrare in Mongolia. L?arido deserto dei Gobi ci avvolse in tutta la sua freddezza.
L?indomani mattina arrivammo ad Ulan Bator, una citt? molto paricolare, innanzitutto perch? in periferia, ma anche in alcune zone centrali, vi sono vari accampamenti di ?ger? che ? la tipica tenda circolare dove vivono i mongoli, detta ?yurta? in russo, e poi per l?architettura in stile sovietico di alcuni edifici, per esempio il Parlamento.
In citt? si vedono molti mongoli vestiti con il loro tradizionale abito in lana, chiamato ?del?, che ripara sia dal freddo intenso che dal vento.
La temperatura era straordinariamente bassa: venti gradi sottozero!
Molto presto mi resi conto di non essere pi? in Cina, ma in un paese pi? amichevole e tranquillo. Mi sistemai in un alberghetto, il ?Sansar?, dove una ragazzona mongola mi accolse con del t? caldo.
In Mongolia si utilizzano le posate per mangiare, e non le bacchette come in Cina e anche il cibo ricorda pi? l?est Europa che la Cina, per esempio si mangia dell?ottimo gulash.
L?indomani mattina, di buon ora, mi presentai all?ambasciata russa, ma anche qui mi risposero che il visto russo avrei dovuto richiederlo direttamente dal mio paese, e che non sarebbe stato possibile entrare in Siberia.
Proprio fuori dall?ambasciata per?, incontrai una donna indaffarata e piena di scartoffie, alla quale chiesi se era proprio cos? difficile entrare in Russia da turista. Lei mi disse che non era cos? difficile, e che lei avrebbe potuto presentare i documenti per me.
E cos? mi affidai a quella signora, che in realt? si occupava di sbrigare le pratiche all?ambasciata. Mi disse per? che per ottenere il visto avrei dovuto aspettare otto giorni.
E cos? mi misi il cuore in pace, e decisi di farmi un giretto nella Mongolia rurale, fuori citt?.
Mi affidai ad un agenzia, che, con una Land Rover, mi accompagn? a circa cento chilometri da Ulan Bator, nel bel mezzo della tundra mongola, in un villaggio di ?nomadi della steppa?.
Il fuoristrada avanzava sicuro nella neve, cosa per me del tutto inedita.
Il piano era questo: avrei dovuto dormire nella ?yurta? con loro, e i due giorni successivi li avrei passati a cavallo nella neve, per poi rientrare ad Ulan Bator dopo quattro giorni.
C?era solo un ?piccolo? problema: la famiglia che mi avrebbe ospitato non spiccicava nemmeno una parola d?inglese, e siccome io non conoscevo nemmeno una parola di mongolo, ma biascicavo solo qualche frase in cinese, non vi era modo di comunicare tra noi se non con i vecchi e cari ?gesti?.
E cos? fu: per quattro giorni gesticolai a pi? non posso, un p? come facevo in Cina, ma con l?aggravante che ero nel bel mezzo della steppa a venti-venticinque gradi sottozero.
Tra me e la ?famigliola? per?, si instaur? una buona relazione, anche perch? avevo portato con me dell?ottimo ?Chianti?, comprato ad Ulan Bator, grazie alla globalizzazione.
La famiglia dei mongoli era composta da madre, figlio di circa vent?anni, che soprannominai ?il mio mandriano?, perch? mi portava a cavallo con lui e il bambino piccolo. La loro economia ? basata sull?allevamento di bovini, ed ? per questo motivo che i mongoli si spostano nella steppa stagionalmente, per cercare nuovi pascoli.
All?interno della yurta non vi ? frigorifero, anche perch? il frigo naturale non ? altro che una cassa di legno situata al di fuori, dove viene tenuta la carne, a temperatura ambiente!
Invece, con stupore notai che non mancava il televisore, un vecchio apparecchio stile anni settanta, tenuto insieme con rotoli di adesivo e alimentato da un generatore diesel che era sistemato fuori dalla yurta, abbastanza lontano.
Al centro della yurta vi era una grande stufa a legna che serviva per riscaldare e per cucinare.
La prima sera la passammo cos?, mangiando dell?ottima carne alla brace e guardando la televisione, incredibilmente un?emittente russa stava trasmettendo un film con ?Fantozzi?!
In russo, naturalmente.
L?indomani ci fu la cavalcata nella neve.
Innanzitutto ci fu l?operazione ?vestizione?. La signora valut? che il mio giubbotto di pelle, pur essendo pesante non era appropriato per affrontare venti gradi sottozero a cavallo e cos?, mi propose di ?impastranarmi?, mi diede cio? un enorme cappotto, che quasi sembrava un materasso mongolo, dentro il quale mi avvolsi per ottenere maggior protezione al vento. Poi, oltre a berretto di lana e guanti, mi diedero degli stivaloni di pelo di yack, pesantissimi, tanto che mi sembrava di avere delle palle di piombo ai piedi.
Quindi mi ?issarono? sul cavallo e, insieme al ?mio mandriano?, iniziammo a cavalcare al passo verso una localit? imprecisata, nel bel mezzo della steppa innevata.
Il cielo era terso e un sole pallido e debole risplendeva basso all?orizzonte.
Cavalcammo per circa due ore, spesso al passo ma qualche volta al trotto, e quindi giungemmo in un villaggio di altri nomadi.
Proprio mentre arrivammo, gli uomini del villaggio erano occupati nello squoiare una vacca, preparandosi per il duro inverno che stava per arrivare.
Mi fecero entrare in una yurta, dove alcune donne mi offrirono del caldo riso e latte.
Fu un?esperienza impattante, mi sembrava di vivere una scena nel Medioevo.
Una volta ripresomi dal freddo intenso, mi sistemai il ?pastrano?, e montai nuovamente a cavallo, per rientrare verso la nostra yurta.
Il percorso di ritorno fu pi? vario, perch? cavalcammo in una zona pi? impervia, attraverso rocce e boschi completamente innevati.
Arrivammo alla nostra yurta quando gi? stava facendo buio, giusto in tempo per un caldo stufato di carne, condito con qualche verdura che arrivava chiss? da dove.
Il giorno successivo ci fu un?altra cavalcata e anche una caminata nella steppa.
Quindi, il cuarto giorno, verso le undici del mattino, venne a prendermi la Land Rover dell?agenzia di Ulan Bator.
Salutai la famigliola nomade e, dopo una foto ricordo, lasciai la steppa per tornare nella ?civilt??.
In arrivo ad Ulan Bator rientrai all?hotel ?Sansar?.
I giorni successivi li passai in citt?, visitando il principale tempio buddista della capitale e il museo nazionale.
Quindi, una volta ottenuto il visto russo, comprai il biglietto per la ?transiberiana?, e alcuni vaucher di hotel situati in Russia. Il periodo in Mongolia volgeva al termine, ora dovevo finalmente affrontare un nuovo, lunghissimo viaggio, la transiberiana.
YURI LEVERATTO
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by Yuri Leveratto il lunedì 17 settembre 2007
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mercoledì 18 luglio 2007
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San Agustin
da www.yurileveratto.com
San Agustin
Il luogo archeologico pi? importante del territorio colombiano ? la parte meridionale del dipartimento del Huila, nel sud del paese.
In questa zona il frate Juan de Santa Gertrudis scopr?, nel 1757, varie tombe adornate con statue finamente lavorate, alcune alte anche vari metri.
Successivamente i coloni fondarono nelle vicinanze un villaggio, che fu chiamato San Agust?n, in onore del santo.
Di questa cultura antica, erroneamente chiamata ?agustiniana?, si sa ben poco, in quanto purtroppo le tombe sono state saccheggiate nel corso del XIX e XX secolo.
Per raggiungere la zona si deve innanzitutto raggiungere Neiva, la caldissima capitale del Huila. Poi si prosegue, con tre ore di viaggio in ?buseta?, fino a Pitalito, paesone polveroso situato a mezz?ora di distanza da San Agust?n.
A San Agust?n, tipico paese colombiano con basse case bianche e colorati balconi, si alloggia in modesti hotel e si degusta il pesce tipico di fiume, la ?mojarra?.
La visita si effettua in due giorni.
Il primo giorno si accede al parco archeologico, dove si possono ammirare le tombe e le statue, alcune alte fino a tre metri.
Inoltre si ammira la cosidetta ?fuente de lavapatas?, una roccia finamente intagliata in un torrente. Lo scopo di questi intagli e di questi petroglifi (o pitture rupestri) sembra sia relazionato con la sacralit? del luogo, che era utilizzato come un enorme cimitero.
Nel pomeriggio di solito si fa l?escursione a cavallo, indispensabile in quanto i luoghi da visitare sono troppo distanti tra loro per camminare.
Si ammirano altre statue, alcune di esse policrome. Inoltre si giunge in un luogo panoramico dove si possono ammirare altri petroglifi oltre a spettacolari cascate in lontananza.
Il secondo giorno si fa un?escursione in fuoristrada nella quale si ammirano alcuni scorci paesaggistici di rara bellezza, come il famoso ?estrecho?, dove il fiume Magdalena scorre tra due strette pareti di roccia. Inoltre si visitano altre statue e altri resti funerari tra le quali la statua pi? alta che questa antica cultura ci ha lasciato, di circa cinque metri.
Ma quando si svilupp? questa cultura?
E perch? si spense?
Secondo i risultati ottenuti con il metodo del carbonio-14, questo antico popolo gi? abitava la regione nel III millennio prima di Cristo.
Ma quale fu la sua origine?
Vi sono varie teorie. Alcuni sostengono che questo popolo derivasse dagli Olmechi del Messico, in quanto le statue dell?area di San Agustin ricordano le statue messicane della cultura Olmeca.
Altri invece, osservando le statue, e in particolare i nasi negroidi che in esse vengono rappresentati, pensa che il popolo in questione derivasse da alcune isole melanesiane dell?Oceano Pacifico.
Purtroppo sono stati rinvenuti pochissimi resti umani, in quanto i ?guacheros?, ovverosia campesinos in cerca di oro, se ne disfarono nei secoli precedenti non comprendendone l?importanza archeologica.
Uno di questi ?guacheros? per?, di nome Libardo Sotelo Meneses, ha conservato molti pezzi antichi nel suo museo privato, tra i quali uno scheletro integro e altri resti umani, che per? non sono stati studiati a fondo. Se fossero provate le caratteristiche negroidi di questi resti, la teoria ?melanesiana? acquisirebbe importanza.
Dallo studio delle tombe, che spesso sono costruzioni coperte ma non sotterranee, si evince che in questo antico popolo vi erano delle differenze di classe. In generale le tombe dei ?nobili? o capi clan erano meglio adornate e spesso coperte sia da un sarcofago che da una statua che rappresentava il ?totem?. Le tombe dei capi clan erano inoltre situate su tumuli di terra, sia per un motivo mistico, quello di avvicinarle al Sole, sia per una ragione pi? pratica, ovvero preservarle da possibili inondazioni. Questi tumuli non sono altro che delle ?protopiramidi?, e in essi si vede gi? l?embrione di una civilit? pi? complessa.
Il popolo veniva invece interrato in tombe di minor pregio e nessuna statua veniva collocata all?entrata della tomba.
Questo popolo antico si divideva probabilmente in clan.
Le statue, alcune antropomorfe ma con fattezze feline, altre raffiguranti aquile o serpenti, rappresentavano un animale considerato sacro dal clan, che spesso si identificava in esso, e da esso credeva di derivare, considerandolo coma una semi-deit?.
Altre statue rappresentano invece scene di sacrifici umani, in quanto si notano alcuni bambini tenuti nella mano sinistra delle sculture mentre nella mano destra vengono tenute delle pietre che servivano per sacrificarli, probabilmente al Sole, considerato la Divinit? Assoluta.
Studiando le statue di San Agust?n si nota che questo popolo deve aver avuto delle relazioni con trib? amazzoniche, in quanto in alcune statue sono state scolpite delle maschere simili a quelle usate in Amazzonia e l?organo genitale maschile ? stato rappresentato tenuto verticalmente da una corda, come usano alcuni popoli della selva.
Gli animali simbolici, utilizzati come totem sono: la rana, che simboleggia la pioggia, il serpente, che significa vita e morte in gran parte delle culture pre-colombiane, i roditori, come esempio di fertilit?, e il giaguaro e l?aquila, simboli di forza e maestosit?.
Questo antico popolo, che non aveva raggiunto l?et? dei metalli ma era fermo all?et? della pietra, era per? in grado di coltivare il mais, viveva in capanne circolari di legno e creava fantastiche creazioni scultoree.
I ?dolmen?, o megaliti, di origine vulcanica, erano lavorati con pietre dure trovate nelle vicinanze dei fiumi. Inoltre questo popolo lavorava l?oro, metallo tra i pi? duttili, le cui creazioni si possono ammirare al museo dell?oro di Bogot?.
Perch? questa cultura si estinse?
Quando l?estreme?o Sebastian de Belalcazar giunse nell?alta valle del Magdalena, nel 1536, questa cultura antica si era gi? estinta da circa tre secoli.
Probabilmente l?influenza dell?impero Inca, che dal Per? si estendeva sino al sud dell? attuale Colombia fu la causa predominante di questo declino.
Questo antico popolo conobbe la scrittura?
Non sembra, ma alcuni petroglifi ?evoluti?, oggi gelosamente custoditi nel territorio indigeno degli Yanacona, forse indicano che la strada per giungere ai pittogrammi non era poi cos? lontana.
Attualmente il governo colombiano ha recintato tutta la zona archeologica, che viene sorvegliata per difendersi dai saccheggi dei ?guacheros?.
Si spera che in un futuro prossimo si trovino i fondi necessari per studiare pi? in profondit? questa cultura antica tanto misteriosa.
Yuri Leveratto 2007@Copyright
by Yuri Leveratto il mercoledì 18 luglio 2007
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martedì 19 giugno 2007
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La Transiberiana
da www.yurileveratto.com
Il viaggio in treno pi? lungo della mia vita ebbe inizio una gelida mattina nel novembre 2002, nella stazione di Ulan Bator, la capitale della Mongolia.
Il cielo era azzurro e le strade della citt? erano completamente innevate. La colonnina di mercurio era ferma sui venti gradi sottozero!
La stazione, costruita durante l?era sovietica, quando la Mongolia era un satellite dell?URSS, era piena di viaggiatori in attesa di prendere posto sul treno. La maggioranza erano commercianti mongoli che si recavano in Russia per vendere le loro pellicce, mentre gli occidentali si contavano sulle dita di una mano.
Una volta timbrato il biglietto, uscii all?aperto, dalla parte dei binari. Ecco, il treno era l?, di fronte a me, un mostro d?acciaio verde e lunghissimo, non li ho contati tutti, ma forse era formato da trenta vagoni. Presi posto in un compartimento di prima classe, e conobbi la donna con la quale dividevo la cabina: una ricca donna mongola, che si recava a Mosca per concludere l?acquisto di un container intero di vodka.
Verso le otto del mattino, la partenza: le ruote d?acciaio scricchiolarono sui binari e lentamente il treno inizi? il suo percorso che l?avrebbe portato fino a Mosca, ben seimilatrecento chilometri e cinque fusi orari pi? ad ovest.
In pochi minuti ci ritrovammo nella steppa, nell?infinito orizzonte della Mongolia, un immenso deserto di neve e ghiaccio.
Nel pomeriggio ebbi modi di conoscere altri mongoli, amici della mia ?co-inquilina?. I mongoli sono nomadi per natura, in quanto la maggioranza sono allevatori di bovini e si spostano stagionalmente alla ricerca di pascoli migliori. Anche quelli pi? ?evoluti? sono nomadi, e si muovono per ragioni di commercio.
In serata ci fu la prima cena a bordo del treno, una minestra bollente e un piatto di gulash piccante, per iniziare ad ambientarsi alla cucina russa.
Dopo cena, una volta rientrati in cabina mentre stavamo sistemando le cuccette, il treno giunse al confine con la Russia, e gli ufficiali dell?armata rossa salirono a bordo per ispezionarlo. Furono ore interminabili, in quanto le guardie russe controllarono ogni valigia, svuotarono i tubetti dei dentifrici e spulciarono i passaporti sino all?ultima pagina.
Verso le due di notte, finalmente, proprio quando mi addormentai, il treno si inoltr? timidamente in territorio russo.
Alle sei del mattino il gracchiare dei freni sui binari mi svegli? di soprassalto. Il treno fece una veloce sosta nella citt? di Ulan Ude, la capitale della Buriazia.
Quindi, verso le otto del mattino il lungo convoglio della transiberiana giunse sulle rive del Baikal, il lago pi? capiente del mondo. In questo lago siberiano infatti, lungo circa seicento chilometri e largo in media cinquanta, ? contenuta pi? acqua che nei cinque grandi laghi americani combinati, una quantit? d?acqua dolce che non ha eguali sulla terra: 23600 chilometri cubi, sufficenti per il consumo idrico di tutta l?umanit? per circa cinquant?anni!
Il treno, verde mostro di ferro dalle ruote argentee, avanzava veloce in quello scenario invernale. Dal mio finestrino contemplavo quel panorama maestoso, quel lago dalle acque pure e gelide sulle cui rive il ghiaccio crepitava.
La temperatura, circa venti gradi sottozero, non era sufficente per formare una cappa di ghiaccio in tutta la superfice del lago.
Il congelamento totale del lago avviene di solito solo in gennaio, quando la temperatura raggiunge i cinquanta gradi sottozero!
Verso sera i binari della transiberiana si allontanarono dal lago, e il treno fece tappa nella citt? di Irkutsk. Scesi nella pensilina per sgranchirmi le gambe e notai un fatto curioso: gli orologi della stazione non riportavano l?ora locale, ma bens? l?ora di Mosca, citt? situata a circa cinquemila chilometri da Irkutsk!
Successivamente mi spiegarono che l?ora di Mosca viene utilizzata in tutta la transiberiana per facilitare i calcoli del tempo. Nella pensilina di Irkutsk vi erano diciassette gradi sottozero, ma ormai non ci facevo pi? caso, il mio f?sico si era abituato a quelle temperature.
Nella notte il treno ripart? e si inoltr? nel territorio siberiano.
L?indomani mattina stetti a lungo a guardare dal finestrino, si vedevano immense foreste di abeti e betulle innevate, e ogni tanto, sperduti e poverissimi villaggi. C`? da chiedersi come vivessero quelle persone, forse solo di agricultura essenziale, patate e ortaggi d?estate, in quanto non si vedevano mucche o forse erano chiuse nelle stalle.
In pomeriggio il convoglio giunse nella citt? di Krasnojarsk, uno dei grandi centri industriali della Russia.
Dal finestrino si vedeva uno scenario quasi apocalittico, enormi centrali termoelettriche riversavano immense quantit? di fumo denso e nero nell?atmosfera, e in lontananza si notava la s?goma sinistra di un enorme centrale nucleare.
Anche in questa citt? ci fu una sosta di circa un?ora.
Nella pensilina della stazione, gremita di russi in vena di acquisti, i viaggiatori mongoli vendevano le loro pelliccie.
I russi si accalcavano, contrattavano e i mongoli rientravano nel treno con rotoli di rubli.
Poi, la partenza.
Nella notte rimasi a lungo ad osservare il paesaggio. Il treno correva veloce attraverso la foresta innevata, che si alternava a grandi praterie illuminate dalla luna.
L?indomani furono altre ore ed ore di paesaggio immutato: boschi senza fine ed enormi distese di neve, a volte attraversate da fiumi impetuosi.
Solo in serata arrivammo a Novosibirsk, la pi? grande citt? siberiana, un agglomerato di circa due milioni di abitanti.
Dal finestrino del treno ebbi modo di vedere le vie e i palazzi di questa metropoli della steppa, con le sue strade percorse da vecchie auto sovietiche, come le Uaz, le Lada e le enormi Zil.
Intanto avevo fatto amicizia con la mia ?co-inquilina? mongola, con la quale mi esprimevo in inglese.
Lei mi insegn? qualche parola di russo, per esempio l?utile ?skolko stoit?? ovvero: ?quanto costa??, ma anche vozkal-stazione, spasiba-grazie, e il simpatico ?nasdarovie?, il nostro cin-cin all?atto del brindare.
La sosta a Novosibirsk fu pi? lunga del previsto ed ancora una volta i mongoli scesero nella pensilina della stazione cercando di vendere le loro pellicce ai russi che si accalcavano vicino al treno.
Poi, verso le otto, la partenza.
L?indomani mattina mi svegliai verso le otto, e bevendo un t? caldo rimasi a guardare dal finestrino a lungo.
Il paesaggio era meraviglioso: enorme distese di abeti innevati a perdita d?occhio, e in lontananza, desolate distese di ghiaccio. In pomeriggio ci fu la sosta ad Omsk, altra citt? siberiana di circa un milione di abitanti.
Questa volta la sosta fu breve e la polizia non permise ai passeggeri mongoli di vendere le loro pelli ai russi.
A questo punto ci furono ventiquattrore filate di treno, senza vedere n? citt?, n? villaggi. Occupai il tempo leggendo e giocando a scacchi.
L?indomani mattina ci fermammo a Tjumen, una citt? di circa mezzo milione di abitanti a met? strada tra Omsk e i monti Urali.
Ancora una volta ci fu il mercato delle pellicce nella fredda pensilina.
Poi, le ruote striderono sui binari e ci fu l?ennesima partenza. Il treno era stracolmo perch? a Tjumen erano salita tantissimi viaggiatori tra i quali una banda musicale gitana.
Quella sera feci conoscenza con una delle cameriere del ristorante. Era una bella ragazza russa, forse di etnia tatara. Era molto alta, forse un metro e ottantacinque, e aveva alcuni denti d?argento. Mi sorrideva.
L?indomani mattina, il settimo giorno di treno, ci fu l?arrivo a Yekaterinburg, una grande citt? situata poco prima dei monti Urali. La Siberia era finita e non apena attraversati gli Urali saremmo entrati in Europa!
Quando il treno finalmente part?, rimasi a lungo ad osservare i sobborghi di quella citt? con le sue strade innevate e le sue auto in stile sovietico.
Tutta la giornata la passammo attraversando gli Urali, colline pi? che montagne. Colline dolci, coperte di enormi abeti, a perdita d?occhio.
In serata, passati ormai nella Russia europea, ci fermammo a Perm. Quindi, il mattino dopo, ci fu l?arrivo a Kazan, dove scesi.
A Kazan faceva freddo, ma non c?era neve. Mi riproposi di dormire una notte a Kazan, ma una giornata intera fu pi? che sufficente per la visita di questa citt?.
Kazan, che oggi ? una citt? di circa un milione di abitanti, sorge sulle rive del Volga. La citt? ? sede di un importante mercato, dove si pu? trovare di tutto, dai prodotti siberiani al famoso caviale del Volga.
Visitai una vecchia chiesa ortodossa e una lucente moschea, di nuova costruzione. Qui Cristianesimo e Islam convivono pacificamente.
In serata decisi di prendere il primo treno per Mosca. E cos? fu, salii su un rapido che proveniva da da Tjumen.
L?indomani mattina, all?alba, giunsi finalmente a Mosca.
Uscendo dalla ?Kazanski Station? mi immersi in una moltitudine di persone, alcuni erano russi affrettati per giungere al lavoro, altri erano zingari in cerca di elemosina. Mi resi subito conto della situazione di disperazione che vi era nelle vicinanze della stazione di Mosca.
La transiberiana era finita, con i suoi seimila chilometri e nove giorni di treno dalla Mongolia.
Mentre camminavo tra la folla cercando l?accesso alla metropolitana, nell?intento di giungere al Cremlino, pensai al lontano lago Baikal, e alla purezza delle sue acque.
YURI LEVERATTO
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by YURI LEVERATTO il martedì 19 giugno 2007
alle 00:00
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